LETTERA DI UNA MADRE
Cara Barbara,
quando riceverai questa lettera avrò già lasciato il Messico pronta per tornare da te con lo sguardo pieno dei ricordi di una terra lontana, anello di congiunzione fra la grandezza sterminata degli Stati Uniti e la miseria dell’America Latina.
Ho scattato delle foto che guarderemo insieme, a casa: non sono solo i trofei di una turista curiosa ma delle vere e proprie reliquie di un viaggio che rimarrà indelebile come una cicatrice nella mia memoria.
I paesaggi bruciati dal sole, l’immensità dell’oceano e i volti di tutti quelli che hanno accompagnato il mio percorso sono tutti lì, nella mia borsa e nel mio cuore.
Ce n’è una, in particolare, che ha una storia da raccontare: la storia di Paula.
La trovai in un villaggio, la colsi di sorpresa nella sua quotidianità, fatta di giorni sempre uguali.
Lì, mia cara Barbara, ai bordi delle metropoli si allungano fasce di povertà che si stagliano come cartine tornasole della dominazione occidentale.
La immortalai fra le macerie e le rocce bianche, aride come quei sentimenti che si portava dentro.
Come tutte le donne indigene da madre a figlia sembrano tramandarsi il gene della sopportazione, della privazione, nelle loro vene scorre il sangue degli antenati sterminati dall’uomo bianco.
Aveva sei anni Paula, l’infanzia come una farfalla alla quale avevano strappato le ali.
Ora sei un’adolescente e ti stai accorgendo giorno dopo giorno, sbaglio dopo sbaglio, cosa vuol dire diventare adulta e prendersi delle responsabilità, per lei, invece, è come aver bruciato le tappe prima del tempo.
Lo capii da come mi guardava mentre la spiavo con il mio obiettivo: lo sguardo era penetrante, da donna che non vuol essere disturbata nel suo lavoro.
Il colletto bianco, con qualche pretesa di eleganza, contrastava con la pelle ambrata del volto e con i capelli nerissimi che lo incorniciavano.
Il corpicino era infagottato in un vestitino verde pallido che la rendeva quasi una figura caricaturale.
Assomigliava a quegli abiti che ti obbligavo a indossare la domenica: te lo ricordi?
Tu facevi i capricci e piangevi perché non volevi preoccuparti di sporcarti o muoverti, volevi essere libera di correre e saltare.
Quando ho visto quello che stava facendo, ricordando quando avevi la sua età, pensavo giocasse.
Era china su un lavatoio dalle sponde alte, quasi a sostenerla, le mani insaponate stringevano un panno bianco.
Anche tu, a volte, ti mettevi vicino a me e mi imitavi nelle faccende domestiche, giocavi “a fare la mamma”.
Invece lei, bambina mia, stava veramente lavando i panni per i suoi fratellini, accanto a lei un rubinetto e un secchio di plastica colmo d’acqua.
Riuscii a malapena a scambiare qualche parola, era come un uccellino spaventato ma quando le dissi di avere una figlia sorrise.
Questo sorriso e per te, Barbara, per ricordarti di quanto sei fortunata ad avere davanti un futuro ancora da inventare, ad avere delle speranze, dei sogni.
Quando avrai questa foto fra le mani, pensa a tutti i giochi che hai chiuso nell’armadio e all’infanzia che vuoi a tutti i costi congedare e tienila ancora per un po’, tieni i ricordi per chi non ha avuto il privilegio della spensieratezza.
Nei momenti di crisi, quando ti arrabbierai con me fino a pensare di odiarmi, quando ti sentirai prigioniera perché ti vieterò di fare ciò che fanno i grandi, quando vorrò stringerti fra le braccia per illudermi che tu sia ancora piccola pensa a chi è dovuto crescere prima del tempo, a chi bambino non lo è mai stato.
Un abbraccio,
Mamma
Laura F.