Una bambina, in mezzo a una discarica a cielo aperto, tiene tra le mani un giornale e lo guarda. Tutt’intorno rifiuti, mentre in cielo, in contrasto con il sudiciume del terreno, vedo librarsi uno stormo di uccelli.
Sullo sfondo, di spalle, un uomo cammina e si allontana. Forse un turista? Il suo abbigliamento mi fa pensare che egli non si trovi nella stessa situazione della bambina, chiaramente disagiata. Come mai due soggetti tanto diversi, a così poca distanza l’uno dall’altra, respirano la stessa aria soffocante e malsana?
La bambina, forse in cerca di qualche oggetto che possa essere ancora utilizzato, da tenere per sé o magari da vendere, ha scorto sul foglio di carta qualcosa che ha attirato la sua attenzione.
Questa immagine mi richiama alla mente un documentario visto qualche settimana fa sul Cairo. Si mostravano famiglie dedite, da mattina a sera, alla raccolta dei rifiuti nelle discariche.
“Questo è il nostro lavoro, è ciò che ci permette di sopravvivere, la nostra unica possibilità di salvezza” spiegava, intervistato, un uomo, padre di una famiglia molto numerosa. E l’interrogativo paradossale che già allora mi aveva sollecitato quella pellicola è il medesimo che mi si ripresenta ora: “E’ umano considerare un bene queste montagne di rifiuti, prodotte dall’opulenza di pochi, che permettono ad intere famiglie di cibarsi?”.