LIKE A STRAY
Molti fotografi hanno realizzato scatti che riguardano i cani: Elliott Erwitt, primo fra tutti, li ha ripresi, con arguta ironia, sempre “dal punto di vista dei cani”, ma anche Ferdinando Scianna ci ha regalato il suo randagio malinconico sul Gange, mentre Josef Koudelka ha immortalato un cane nero – forse aggressivo e minaccioso – su un bianco e inquietante paesaggio di neve. E, così, tanti altri ancora …
Ma la foto più famosa è forse quella di Daido Moriyama che ritrae un cane per le strade di Misawa: a questa immagine – sfocata, buia e sgranata, così come molte altre – l’autore giapponese ha dato il titolo “Like a stray dog”.
Con uno scatto Moriyama descrive icasticamente il suo agire fotografico che, in altra occasione, ha così descritto:”Quando vado in città, non ho un piano … Cammino lungo la strada, e giro da un angolo all’altro, come un cane randagio: io decido dove andare dall’odore delle cose, e quando sono stanco, mi fermo “
Anche i miei cani sono randagi, ma non rappresentano il mio agire fotografico: li penso invece come allegoria di questa nostra umanità. Un’umanità spersa, priva di alcuna guida che sembra muoversi senza una meta definita.
Un’umanità dolente che, proprio come un cane randagio, si aggira, procede e si riproduce, sconsolatamente, attraverso ciechi automatismi, orfani di qualsivoglia regia.
P.S.
Leopardi, come è risaputo, individuava nella Natura la nemica e l’origine della sofferenza umana. Per lui, la bellezza naturale nascondeva una crudeltà implacabile, una forza che schiaccia e annienta i sogni e le aspirazioni umane. Oggi, in un mondo pervaso dalla tecnologia e dall’indifferenza, e soprattutto in un contesto segnato da conflitti e guerre, quali altre riflessioni potrebbe suggerirci?
Se la guerra si riaffaccia al nostro presente, inesorabilmente, il poeta recanatese potrebbe reinterpretare il suo pessimismo? La sua visione della Natura come nemica si amplierebbe, abbracciando anche la natura umana stessa, incline alla violenza e alla distruzione? In questo scenario, potrebbe cedere alla tentazione di concepire la nostra sofferenza non solo come la manifestazione delle forze esterne della Natura, ma anche una tragica espressione della nostra innata propensione all’autodistruzione? In un mondo dove i confini tra civiltà e barbarie sembrano sfumati, il suo pessimismo si arricchirebbe così di una nuova dimensione: l’idea che l’umanità, pur dotata di intelletto e creatività, continui a essere prigioniera di un destino oscuro e ineluttabile.
E ancora, potrebbe porci ulteriori domande fondamentali: come riscoprire la solidarietà e l’empatia in un contesto di divisioni e conflitti? Come superare il dolore collettivo e trasformarlo in un’azione costruttiva se anche lo “spirito della social catena” scompare dall’orizzonte del possibile?
Povera ginestra! Non potrà più ergersi a simbolo di resilienza e di speranza!